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  >>  Diritti degli animali  >>  Animali bolliti vivi a La Prova del Cuoco - Discussione n 48524 - PermaLink
   Animali bolliti vivi a La Prova del Cuoco

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AutorePagina: 2 di 2
bracchetto
| MEDICO VETERINARIO

Registrato dal: 04-07-2007
| Messaggi : 17962
  Post Inserito 03-12-2009 alle ore 11:25   
"Lara"

Ho sempre saputo di essere diversa fin da quando ero giovane. Non chiedetemi perchè.
Avevo cambiato pelle poche volte, e vivevo tra i coralli della scalomata., centoventi metri sotto il mare.
Già da allora passavo molto tempo in solitudine mentre le mie compagne si rincorrevano scodando, si infilavano nelle tane sfidando i polpi, e mangiavano pesci morti con delicati gesti delle nostre posate naturali, le chele.

Già da allora guardavo in su, verso quel punto misterioso da dove, nelle giornate limpide in cui non c'era burrasca, veniva quella luce, quel colore di un altro pianeta.
Già da allora scrutavo nel fondo, e lanciavo i miei ultrasuoni nell'abisso da dove salivano le mie simili più grandi, i pesci dai grandi occhi allucinati e le piovre sinuose.

E più di tutte invidiavo la balena, il grande corpo scuro che poteva precipitare giù fino ai duemila metri, scomparendo nel buio gelido, ma anche involarsi verso la luce, passandomi vicino con l'occhio ebbro di profondità, senza vedermi, perchè ero troppo piccola per lei, una piccola aragosta rossa, brillante come un corallo, ma con un destino doverso da tutte le altre, il mio nome è Lara.

Già da allora sapevo fare qualcosa in più delle mie compagne, il radar delle mie antenne era più potente del loro, captavo tutti i rumori del mare e potevo riprodurli con facilità, sapevo simulare il canto della balena e la risata del delfino, riuscivo a imitare il sibilo minaccioso che emette la piovra nuotando a propulsione, e a volte con quel sibilo spaventavo le mie compagne, arrivando da lontano. Ma non usavo queste mie capacità per dare spettacolo. Non era un gioco, faceva parte della mia curiosità per il mondo cosi vasto e tutto da scoprire. Non mi bastava il mondo di mezzo, la zona delle rocce coralline e delle attinie, dei lenti banchi di paraghi e delle migrazioni dei tonni. Mi piaceva esplorare, su e giù, i misteri della luce e del profondo.

Andavo spesso verso il lato più oscuro del mare, scendevo lungo la parete della scalomata finchè la pressione non mi stringeva la corazza in una morsa, finchè sentivo tutte le cartilagini scricchiolare e gemere. (Forse è un rumore che avete già sentito, se avete bollito qualcuna di noi).

Nuotavo verso il buio e incontravo pesci che non avevo mai visto, soli o a branchi, nubi di gamberi e sciami di calamari. Vidi il Pelacadon luminoso passarmi davanti come un riflesso di sole, inseguito da una forma oscura, alata, forse una manta, e dietro passò qualcosa di ancora più grosso, facendo rombare l'acqua e le mie antenne, perchè questa è la prima regola del mare:

Nessuno è tanto grande da non incontrare un giorno qulacuno più grande di lui.

Oh, io ero piccola. Non più di venti centimetri, e non avevo neanche le chele robuste dell'astice, quel prepotente verdastro sempre pronto ad azzuffarsi con noi e mutilarci. Non sapevo neanche mimetizzarmi come la cicala preistorica, non mi nascondevo nella sabbia, come la rana pescatrice, non avevo per difendermi il nero della seppia nè i denti della murena, o i tentacoli della piovra. Avevo la corazza, ma era un ben misero guerriero. Necrofago, mangiatore di carne morta. E per mia sfortuna, ero anche carne pregiata.

Una volta scesi fino a quattrocento metri e incontrai le aragoste bianche. Ne avevo sentito parlare ma non le avevo mai viste. Erano molto grandi, cinque o sei volte più di me, e si muovevano come spettri. Alcune erano trasparenti e potevo vedere la linfa scorrere nelle zampe, nelle antenne, fino agli occhi. Danzavano (questo mi era già stato raccontato), nuotavano in fondo con lenti battiti di coda, seguendo un percorso che scendeva a spirale. Ascoltavano la musica della corrente, la corrente fredda dei calamari che attraversa le acque tiepide in quel punto, quasi un mare dentro al mare.

Compresi subito il motivo di quella danza: proprio al centro del girotondo c'era un'aragosta bianca più grande di tutte. Non batteva più la coda, agitava solo un poco le zampe, a pancia in su: stava morendo, e le altre la accompagnavano verso il fondo. La grande moribonda scendeva piano, roteava, si lasciava andare: niente mi sembrò più desiderabile di quella caduta angelica. Ma mentre risalivo, capii che, nello stesso modo, desideravo la luce sopra di me, l'ascesa vertiginosa verso un altro mistero.
Quando tornai, le compagne risero di me. Il freddo aveva coperto la mia corazza di una patina scura, le mie antenne vibravano. Mi chiesero se avessi visto il Kraken lungo come sette navi, o l'astice lupo che taglia in due le aragoste, una metà la divora e l'altra la possiede, o se avessi trovato un bel cadavere di marinaio da mangiare. Facci l'imitazione del verso del Celacadonte, disse una . Non mi curai di loro.

Avevo cambiato carapace altre dieci volte, quando infine ebbi dal destino il segno che aspettavo. Mentre osservavo i perfidi agguati di una rana pescatrice nascosta nella sabbia, scorsi sospesa nell'acqua un'immensa rete. Oh, non era la prima volta. Avevo visto spesso le mie sciocche amiche precipitarsi sui pesci catturati dalle maglie, avevo voltato la testa quando le avevo viste dibattersi prigioniere, scuotersi in un'inutile lotta, farsi divorare vive dalle pulci di mare e penzolare impiccate alle pareti di corda. Ma quella rete era diversa: dietro di essa, per la prima volta, mi apparve un uomo. Era tutto nero, con lunghe pinne. Sapevo che quello non era il suo aspetto naturale, ma un travestimento per entrare nel nostro regno. Eppure non sembrava tanto diverso dalle creature del mare. Dietro di sè lasciava una bellissima scia di perle d'aria, alcune piccole e frenetiche, altre grosse, come meduse, che volavano verso l'alto.

Imaparai subito ad imitare il loro rumore, il loro scoppio leggero. Capii subito che cosa interessava l'uomo. Cercava il corallo, il nostro villaggio-albero, la casa dove milioni di piccoli animali vivono insieme. C'era un bosco di corallo, che conoscevo bene, su una roccia circolare bucata da tane di cernie. C'erano voluti anni e anni perchè quel bosco fosse costruito. Ora l'uomo ne staccava i rami, e li metteva in una piccola rete. Stava orizzontale sul fondo, nella stessa posizione dei pesci, muovendo lentamente le pinne, e lavorava tranquillo. Tra me e lui c'era la rete. Cosi non mi spaventai quando mi vide. Forse sarei scappata, o forse no. Ma la rete c'era, ed era un ostacolo anche per lui.
Mi avvicinai, tanto da potergli vedere gli occhi, dietro la parete trasparente della sua corazza. Mi guardò a sua volta, e con la mano fece un goffo tentativo di passare attraverso le maglie per catturarmi. Pensai che sarebbe stato comico se fosse rimasto impigliato anche lui nella rete come una sciocca aragosta, avrei partecipato anch'io al banchetto, non ho mai mangiato un umano, ma in fondo è carne, nient'altro, e dopo un poco frolla e puzza come tutto.
Desistette presto dal suo tentativo, e si rimise a lavorare. Poi assunse una posizione diversa, pinne in basso e testa in alto, e risali verso la luce. Io lo seguii, andava veloce ma riuscii a raggiungerlo. Mi accorsi che mi guardava stupito. Poi la rete che ci separava fini, c'erano solo delle lunghe corde tra noi, ma l'uomo non fece nessun tentativo per catturarmi, capii che aveva fretta di risalire, che il mare in quel momento gli faceva paura. Improvvisamente si fermò, aggrappato a una corda che veniva dall'alto, dove si vedeva chiaramente la pancia bianca di una barca. Si fermò come istupidito.

Si tolse dalla schiena la macchina che lo faceva respirare e fare bolle, e dall'alto gliene calarono un'altra. Ora stava fermo, e respirava calmo. forse non voleva tornare più su, si trovava bene li. Mi misi a girargli attorno. Pensavo che avremmo potuto fare amicizia. In fondo eravamo in una zona intermedia, là dove non c'è più il buio profondo e la luce non è ancora accecante, dove passa la corrente tiepida, dove giocano i delfini. cosi provai con le antenne a a sentire la consistenza delle sue pinne. Lui mi guardava e sembrava interessato ai miei movimenti. Gli vidi in mano una lastra nera, su cui tracciò dei segni. La legò a una corda, tirò e la lastra nera sali verso la luce. Ora aspettava qualcosa. Dall'alto scese un oggetto oblungo. Proprio all'ultimo momento vidi che aveva in cima un arpione, un dente a tre punte. Intuii il pericolo e scappai. L'arpione mi sibilò vicino con tutta la sua cattiveria e terminò la sua corsa con una capriola violenta.
Non era facile fare amicizia con l'uomo, i delfini me l'avevano detto, oppure avevo voluto provare. Ma quel giorno avevo anche capito che il mio destino mi portava su, verso il mondo della luce.
E il destino si compi, dieci cambi di corazza dopo. Ormai ero un'aragosta grossa e rispettata, avevo già avuto trecentomila figli, anche se solo due o tre erano riusciti a diventare adulti. Ero cosi esperta e veloce da sfuggire a qualsiasi piovra, a volte zig-zagavo spudoratamente attraverso i tentacoli protesi. Non temevo neanche le risse con gli astici. Non poteva durare: troppa sicurezza non è un buon modo per sopravvivere, in mare.
Cosi un giorno, mentre nuotavo pigramente all'indietro, sentii vicina la presenza ostile della rete. Il mio sistema radar me ne aveva già fatte evitare tante, e quella rete aveva maglie molto larghe: volli provare il brivido di passarci in mezzo. Ci riuscii. Ma dietro la prima rete c'era una seconda rete più sottile. Ebbi solo un breve attimo di panico, mi dibattei, storpiandomi la chela. Poi mi calmai. Appesa, imprigionata, attesi il mio destino. Non dovetti aspettare molto. Mi fu riaparmiata la tortura di essere mordicchiata dalle pulci di mare. La rete iniziò a muoversi. Vidi che saliva verso levante, e che la pancia bianca della barca si stava avvicinando. Quando fu proprio sopra, la rete iniziò a salire più in fretta. Non fu piacevole. Anche se le aragoste possono sopportare grandi sbalzi di pressione, la paura di quella ascesa verso la luce bianca mi torceva la corazza, mi riempiva il cuore, che non ho.
Salii ancora, intontita. Sbattei contro la parete della barca. La luce mi accecò, persi i sensi. Poi sentii un tentacolo che delicatamente mi liberava dalla rete. E VIDI. Vidi il vostro mondo, o una parte del vostro mondo, vidi i pesci agonizzare tutto intorno con la pinna natatoria esplosa. Vidi quattro o cinque umani, vidi come erano veramente, non somigliavano a nessuna creatura marina: forse nel volto, alla testuggine. Mi misero in un'acqua fetida dentro una scatola buia, assieme ad altre quattro o cinque compagne, e tutte gridavano, piangevano, facevano domande assurde del tipo: e ora che ne sarà di noi? Sul fondo della vasca, ingrugnito, c'era un'astice. Aveva le chele legate, gliele avevano legate gli uomini, perchè non ci facesse male, perchè non rovinasse le nostre carni delicate. Mi insultò. Gli pisciai in faccia.

Ora vorrei provare a dirvi dove mi trovo. In un "frigorifero", questa è la parola se ho ben capito. Sono dunque ancora viva, anche se un pò stordita e congelata. Mi hanno cambiato posto tante volte, ho vissuto un mese in un posto che chiamano vasca di mantenimento, insieme ad altre duecento colleghe, a qualche astice ammanettato e a una cernia mascotte.
Poi un giorno sono stata "comprata". Il capo della pescheria, un uomo che ci chiama "le mie ballerine", è entrato insieme ad un altro uomo, uno che parlava da importante (la voce degli umani, segna le gerarchie). Ci hanno guardate tutte, una per una, e poi hanno scelto me e un'altra che chiamiamo la Grassa. Ci hanno sbattuto insieme in una busta di plastica una sopra l'altra, con la Grassa che non stava mai ferma e piangeva e mi chiedeva se per pietà la uccidevo perchè non voleva soffrire. Grassa e tragica, Poi l'uomo mi ha portato nella sua casa e siamo state divise, in questo frigorifero. La Grassa, che stava tirando gli ultimi, l'hanno messa sopra, in un reparto da dove viene un vento gelido. Io sono stata messa in uno scatolone di vetro, insieme ad una salma di branzino da tre chili. Mi ci sono sdraiata sopra, era un lettone gelido e un pò umido. E ho aspettato.
Quella sera hanno preso la Grassa, e io ho spento il radar, perchè non mi andava di sentire tutte le sue lamentele e le volontà testamentarie prima di morire. Ho riacceso le antenne solo un attimo. Mi ha comunicato che, bontà loro, gli umani ti fanno morire nel tuo elemento: L'acqua. Poi ho sentito distintamente il messaggio: "aiuto, che caldo". Poi basta: addio alla Grassa. Ho dormito tutta la notte, mentre il frigorifero ronzava e ogni tanto si apriva e un uomo sudato tirava fuori acqua e liquidi di vari colori. A un certo punto mi ha anche guardato. stavo immobile, sospettosa. Allora mi ha tirato per un'antenna. Mi sono mossa. Ha detto, meno male è ancora viva. Che buon cuore. Capisco tutto quello che dicono ormai, ogni suono e vibrazione, ascolto ogni loro discorso.
Bene, stasera il mio destino si compie. Mi hanno preso, mi hanno legato e ora il padrone di casa mi porta verso la camera della morte, mi tiene davanti a sè a braccia protese, come una vittima sacrificale. Ed ecco in fondo la pentola fatale, il fumo che esce, e quattro persone che lanciano gridolini di finto orrore, oh dio poverina, sento dire, una donna fa finta di non voler guardare ma sbircia, un'altra sghignazza, sembra deriderla, un uomo fa la faccia seria per sottolineare che lui non è un sadico, ma purtroppo questa è la legge della natura; il quarto invece è rosso, eccitato e si vede che la scena gli piace. Ecco che il boia mi tiene sopra la pentola. Sento un gran caldo, un altro gridolino di donna e il boia ha un momento di esitazione, sa che mi deve ficcare dentro in un colpo, se no con la coda lo ustiono. Si prepara a uccidermi, trattiene il respiro, anche tutti gli altri lo trattengono, il sole si ferma in cielo e le onde si fermano nel mare, capisco che quell'attimo di silenzio cosmico è ciò che aspettavo. Alzo un'antenna, come un dito puntato verso il suo viso e imitando la voce umana, con un scricchiolante falsetto gli dico:
"Ma lei ci crede nella reincarnazione?".
E adesso fatti loro. Io, da questo momento, non parlerò più, vengano pure gli scienziati e le televisioni di tutto il mondo. Se ho capito la parola.


Stefano Benni


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Vanna63

Registrato dal: 28-09-2009
| Messaggi : 678
  Post Inserito 03-12-2009 alle ore 11:43   
bellissima, mi sono commossa
grazie


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cherie

Registrato dal: 11-12-2006
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  Post Inserito 03-12-2009 alle ore 12:05   
uffa!!! piango!!! se gli innocenti potessero parlare!!! in ogni essere vivente c'è una poesia... ogni essere vivente ha le sue ragioni... mi sento così impotente di fronte alle sofferenze... e questo mi succede sempre più spesso.... è una consapevolezza che diventa sempre più grande...


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Roxy55

Registrato dal: 26-06-2009
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  Post Inserito 03-12-2009 alle ore 19:38   
e' orribile... non il racconto.. e' orribile pensare alla fine che fanno....



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